TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

lunedì 14 dicembre 2009

Tutta la solidarietà a Silviotto dallo Sri Lanka.

I lettori fissi di Viverealtrimenti sanno che, in questo periodo, sto vivendo in Sri Lanka, collaborando con la più importante ONG del paese (Sarvodaya) che è anche un fiore all’occhiello del Global Ecovillage Network. A Moratuwa, sobborgo di mobilieri vicino Colombo dove ha sede il quartier generale di Sarvodaya, divido un appartamento con Peter, ragazzo inglese di 46 anni, temporaneamente volontario nella ONG.
Una persona di cui sto apprezzando la tolleranza (mi consente di fumare i sigari anche mentre mangia o di ascoltare la musica mentre sta lavorando sul suo laptop, nella living room comune) ed il senso, tipicamente inglese, dell’umorismo. "La tolleranza è stato il segreto dell’impero britannico", mi diceva ieri mentre, davanti ad una bella Carlsberg gelata, discutevamo di puritanesimo, della regina Elisabetta e delle diverse sfaccettature del Commonwealth.
Peter è orgoglioso di essere inglese come del resto Smriti, maestra di yoga della Om International Yoga Health Society, gemellata con Viverealtrimenti, è orgogliosa di essere nata e cresciuta in India. Continua ad essere orgogliosamente indiana anche dopo il suo recente rientro da un giro di seminari in Europa, pur rendendosi conto, fresca dell’esperienza europea, che non è esattamente normale avere le strade con i rigagnoli fognari a cielo aperto, non avere la corrente elettrica per diverse ore al giorno e vivere costantemente immersi in un frastuono di clacson e rumori disumani.
Peter e Smriti: due esempi — da due diverse aree del mondo ― rivelatori, con modalità ancora diverse, di uno stesso orgoglio di appartenenza. Mi capita sempre più spesso di chiedermi perché lo stesso orgoglio non lo ritrovi nei miei connazionali. Ne abbiamo discusso più di una volta con Prisco, citato nella presentazione di questo blog-magazine. Ci siamo soffermati spesso a pensare quanto avere anche un minimo moto nazionalista, in Italia, rischi di essere identificato con una poco lusinghiera attitudine fascista. Discutevamo quanto fosse idiota un’assimilazione di questo genere, quanto sia del tutto naturale avere un amore sincero, genuino per la propria terra, da esaltare e difendere in terra straniera. Noi Italiani, invece, abbiamo la pessima abitudine di lavare i nostri panni sporchi in piazza, rivelando un senso profondo di frustrazione ed impotenza, lo stesso che colgo, molto presto, nei miei rientri in Italia. Credo davvero che un serio dibattito politico dovrebbe partire dalla considerazione dei motivi che stanno dietro a tutto questo. L’Italia è al settantottesimo posto nel mondo per facilità di imprendere. L’Inghilterra di Peter al terzo o al quarto. In Italia pensare di avere un’attività in proprio è atto temerario per l’infinità di adempimenti e di spese cui si deve andare incontro. In compenso, i tanto agognati posti fissi sono oramai una rarità mentre il lavoro dipendente riempie sempre meno la vita di soddisfazioni (pur con tutte le eccezioni del caso). Peter, come me in Sri Lanka, ha subito colto una miriade di attività che si potrebbero promuovere a partire dai distretti di Sarvodaya: produzione di mozzarella di bufala, di miele (quasi una rarità, stranamente, nel paese) o marmellate biologiche (il settore del biologico è quasi del tutto assente in Sri Lanka), per fare solo gli esempi più banali. Si tratterebbe di prodotti che, con un buon marchio, potrebbero anche essere esportati, avvalendosi in primis del network comunitario internazionale. Peter si può permettere di pensare alle sources of income, a prospettive di business perchè in Inghilterra, probabilmente, nessuno viene massacrato se tenta di trarre profitto dalle sue idee, dalla sua creatività. In Italia, in alcuni ambienti, a fronte di idee come quelle di Peter in Sri Lanka, scatta un’altra identificazione idiota; quella con il berlusconismo: "sei business-oriented, sei un berlusconiano!". Certo, è molto meglio marcire dentro ad un call center con un master in economia e commercio o languire con un contratto di tre mesi, non avere diritto ad un sogno, non avere diritto ad un futuro, restare a casa con i genitori oltre i 40 anni, non potersi permettere una famiglia, dei figli, non scopare nemmeno tranquilli. La stessa cultura alternativa (principale oggetto di interesse di Viverealtrimenti), in Italia, dà talora spazio a idee antimonetarie, anti-imprenditoriali come il paradigma della decrescita felice che, nelle versioni più naïves (e, tuttavia, piuttosto diffuse) poggerebbe su esortazioni del tipo: che bisogno c’è di guadagnare molto se è tanto bello coltivarsi i pomodori e tanti altri prodotti nel proprio piccolo orticello, bere l’acqua della fontana con grande risparmio di plastica, non dover correre al supermercato se non per gli assorbenti (da usare fino all’ultimo millimetro pulito), dividersi una macchina ― meglio, una bicicletta ― in sei persone, prendere i libri in biblioteca, usare il cellulare dello zio ed andare in vacanza a casa del cugino? Idee di un semplicismo rivoltante! Credo siamo vittima di vecchi assunti cattocomunisti maldigeriti e non adeguatamente evacuati il tutto mentre fuori, guarda un po’, c’è il mondo, un mondo ricchissimo di fregature ma anche di opportunità. Consiglio a tutti la lettura de L’impero di Cindia di Federico Rampini. Tra i tanti aspetti su cui si sofferma Rampini, riguardo l’emergere dell’Asia ― in particolare del Dragone e dell’Elefante, della Cina e dell’India nello scacchiere internazionale — ci sono anche la pizza ed il caffè. Proprio così! Non conosco, per esperienza, la Cina ma posso pienamente confermare che in India il caffè sta diventando un’autentica fissazione, soprattutto presso i giovani imprenditori (capitalisti! consumisti! berlusconiani!). La bevanda nazionale, in India come del resto in Cina, sarebbe tradizionalmente il thè che si porta dietro un altro immaginario, altri ritmi di vita eccetera. Tuttavia, la corsa dell’India al benessere (perfettamente legittima nel momento in cui posso assicurare ai sostenitori della decrescita felice che la povertà che si può ancora vedere nel paese ha tanti, caleidoscopici aspetti così spaventosamente degradanti che se solo loro li vedessero e li annusassero smetterebbero, probabilmente, di predicare certe stronzate!) sta anche implicando che i giovani ricchi o aspiranti tali "vadano a caffè". Si stanno dunque moltiplicando i locali trendy che offrono le diverse varianti della bevanda (Barista, Sturbacks e Coffe Day per citare le catene più famose). Vantano, in genere, la provenienza italiana del caffè (Illy e Lavazza vanno per la maggiore) ed usano termini italiani come: cappuccino, macchiato, espresso. "A fronte di questo", si chiedeva giustamente Rampini, "dove sono gli imprenditori italiani?". Il business del caffè, in Asia, è del tutto in mano ad altri, spesse volte americani. Lo stesso vale per la pizza. Pizza hut è una catena americana che sta facendo faville in Asia. Anche qui a Moratuwa, anonimo "postaccio" appena a sud di Colombo, ce ne sono almeno due ristoranti. Io mi sono limitato a mangiarci un paio di volte e devo dire che la pizza vera, che ha reso Napoli famosa nel mondo, non sanno nemmeno come sia fatta. Noi siamo dunque maestri di pizze e di caffè, un continente dove solo Cina ed India superano abbondantemente i due miliardi di persone sta impazzendo per la nostra pizza ed il nostro caffè ed il business è tutto in mano ad altri? Complimenti al genio italico! Stessa idiozia, per continuare a citare Rampini, sul fronte degli scambi culturali, dei rapporti tra università. Ci sono tantissimi studenti cinesi, scriveva ancora su L'impero di Cindia, che si stanno riversando in Occidente. Solo per citare i nostri vicini europei, Inghilterra, Francia e Germania stanno aprendo senza indugi le loro università ai giovani cinesi, se li stanno letteralmente litigando. Noi, invece, insistiamo a complicare loro la vita con astrusità burocratiche sui visti ed in tante altre maniere. In ogni città che si rispetti, nel mondo, esiste un British Council per promuovere la cultura inglese, per offrire corsi, a costi ragionevoli, della lingua eccetera. I francesi tentano di non essere da meno; basta aprire una qualunque Lonely Planet e, tra i centri culturali delle maggiori città di ogni paese (o quasi), difficilmente manca l’Alliance Française. Io non credo davvero che la cultura italiana non abbia proprio nulla da proporre. Solo a livello gastronomico avremmo da insegnare più di qualcosa dappertutto e, tuttavia, non ho mai trovato, se non a Delhi, un centro di cultura italiana nei miei spostamenti in Asia. Ricordo un’esperienza da Pane e cioccolata, celebre film con il grande maestro Nino Manfredi, sulle misere condizioni degli immigrati italiani in Svizzera. Nell’agosto del 2007 sono a Kathmandu per richiedere un visto studentesco di un anno all’ambasciata indiana. Ho un problema: mi manca un timbro sul passaporto. La cosa rischia di compromettere l’ottenimento, già farraginoso, del visto. Ho bisogno di un consiglio e, possibilmente, di una buona parola da parte di qualcuno che lavori in un’ambasciata. Penso dunque, un po’ temerariamente, di cercare l’ambasciata italiana. A Kathmandu non abbiamo alcuna ambasciata ma un consolato. Oddio! Vi ci porterei uno ad uno!! Trattasi, piuttosto, di tavolino semisgangherato, in un ufficio buio, accanto ad altri tavolini di altri consolati (forse uno del Burkina Faso, non ci ho fatto caso al momento ma avrei davvero dovuto). Trovo una donna con tratti marcatamente mongolici. Mi presento, naturalmente, in italiano (siamo al consolato italiano…) e lei non ha la minima conoscenza della nostra lingua. Va bene, parliamo in inglese! Le espongo il mio caso, lei non batte ciglio, mi ascolta con sciatta sopportazione. Quando ho finito, lei non dice nulla. Io la guardo interrogativo, le rispiego la questione, lei non reagisce. Alla fine, le sollecito, anche un po’ scherzosamente, una risposta. Lei si limita a dire: "cosa vuole che le dica?!". Esco da quello sgabuzzino sconsolato e sconsolati sarebbe stato l’aggettivo utilizzato da una ragazza di una ONG operativa a Kathmandu che avrei contattato telefonicamente. Le espongo il mio problema, le dico: "sono andato al consolato italiano…". Lei mi ferma subito: "no, lascia stare, lì al consolato sono più sconsolati che altro, anche io quando ho avuto bisogno non ho avuto alcun supporto! Vai piuttosto all’ambasciata francese. Io, quando ho bisogno di aiuto, per il mio lavoro, vado da loro che, sapendo che al consolato italiano sono sconsolati, sono anche disponibili con i nostri concittadini". Mi reco dunque all’ambasciata francese, in una bellissima palazzina, con bel giardino, nel cuore di Kathmandu. Nella comoda sala d’aspetto, vedo cartelloni disegnati da bambini ed un accenno ad uno scambio culturale tra scuole francesi e scuole nepalesi. L’impiegata è una graziosissima nepalese che ringrazio ancora, anche in questa sede. Le spiego la situazione e lei fa un cosa semplicissima: alza il telefono, chiama il collega dell’ambasciata indiana e gli accenna di un cittadino francese con il seguente problema. Chiuso il telefono mi guarda morbida e mi fa: "Il dr. Suklaj l’aspetta fra mezzora, ignori pure la fila, vada direttamente da lui, dietro lo sportello, gli dica che la mando io e gli spieghi la situazione, vedrà che si risolverà tutto facilmente. Ho detto che lei è un cittadino francese per semplificare, lei naturalmente gli dica subito che è italiano ma non si preoccupi, la cosa non creerà alcun problema".
Lascio quasi commosso l’ambasciata francese, pronto a recitare la parte di Nino Manfredi nell’amaro Pane e cioccolata, con l’impiegato dell’ambasciata indiana. Questi, difatti, come mi vede mi fa: "ah, è lei il cittadino francese?!" ed io: "no, veramente sono italiano" (ci mancava solo che aggiungessi, come nel film: "nessuno è perfetto, signore!").
Torniamo a Moratuwa. Questa mattina siedo comodo sul divano, fumando un sigaro dopo colazione. Esce Peter dalla sua stanza, nella sua bella mise di volontario professional pronto per la giornata di lavoro e, con il suo tono un po’ ironico, mi fa: "Berlusconi è in prima pagina sulla BBC, oggi" e non aggiunge altro. Mi passa il modem per connettermi ad internet ed io gli rispondo: "ok, do un’occhiata ai giornali italiani, intendevo giusto farlo". Vado sul sito del Corriere della sera e trovo una maschera di sangue: "Silviotto! Ti hanno preso a sassate!". Leggo l’articolo, realizzo che Peter ne ha ben d’onde a considerarci, sostanzialmente, con il suo humour inglese, degli zulu.
Silviotto è stato colpito con una statuina del duomo di Milano da uno squilibrato. Diciamo pure che può succedere, una volta o l’altra, ad una persona del suo calibro. Quel che mi sgomenta è quella che il sociologo reazionario francese Gustave Le Bon chiamava la psicologia delle folle. Il fatto che lo squilibrato abbia rischiato il linciaggio e che La Russa abbia dichiarato, quasi orgogliosamente: "i sostenitori di Silvio sono stati fermati altrimenti dell’aggressore sarebbero rimasti solo pezzetti!". Il fatto che su facebook si sia scatenato un delirio di consensi all’atto sconsiderato di un povero cristo. Il fatto che, al di là del web, tantissime persone, in Italia, stiano vivendo un momento orgasmico perchè finalmente qualcuno è riuscito a spaccare la faccia all’odiato premier. Trovo un’inquietante continuità tra l’aggressione fisica di ieri e la campagna elettorale di questa primavera (allora ero in Italia e me la sono goduta tutta) in cui la cosiddetta sinistra non ha fatto quasi altro che correre dietro alle gonnelle dietro cui avrebbe corso il premier, cercando di fare leva sulle sacche di bigottismo più retrivo del nostro paese. Ora io mi chiedo: perché il popolo della sinistra (buona parte del quale immagino come stia gongolando oggi) non prova ad avere delle idee? Perché non si sofferma un minimo a pensare che Silviotto, a fronte di avversari politici così insulsi ed umanamente mediocri, non poteva che vincere le elezioni? Perché non si sofferma a pensare che il consenso a Silviotto è del tutto trasversale e non parte solo dai ceti dominanti ed è tale perché dall’altra parte della barricata c’è un inquietante vuoto pneumatico? A questo riguardo credo meriti menzionare un articolo letto su Newsweek di ottobre in cui si accusava Silviotto di tutto quello di cui viene accusato comunemente in Italia. Un articolo ferocemente antiberlusconiano, dunque, in cui, tuttavia, il giornalista non mancava di sottolineare l’assoluta inconsistenza dell’attuale sinistra italiana, "prima responsabile", scriveva, "del clamoroso successo dell’avversario". Il popolo della sinistra, da qualche anno, è talmente ossessionato da Berlusconi che ha perso qualunque altro interesse genuinamente politico quando, in una prospettiva di mondo oramai indiscutibilmente globalizzato, potrebbe avere qualche minimo scatto planetario (come aveva, del resto, fino a qualche anno fa). Esiste, ad esempio, la questione titanica del costo del lavoro nei paesi in via di sviluppo. Un problema a tutto tondo tanto per i lavoratori locali (in Cina, Sri Lanka, nelle Filippine eccetera), che fanno una vita infame, quanto per i lavoratori occidentali, licenziati in gran numero perché le aziende delocalizzano, spostano la produzione nelle celebri zone industriali di esportazione di cui parla Naomi Klein in No Logo. Perché non pensare ad un movimento internazionale per rivendicare un aumento consistente del costo del lavoro nei paesi poveri? Naomi Klein è attiva da anni in questa direzione; sarà ben più interessante che parlare, a mo’ di disco rotto, della deliziosa Noemi Letizia o di Patrizia D’Addario (passi per il lodo Alfano)! Non è una grande espressione di maturità politica fare, in continuazione, le pulci ad un premier per trovare il modo di spedirlo dritto in gattabuia o in esilio senza avere, peraltro, un programma attendibile da proporre. Un programma che andrebbe elaborato, argomentato, che dovrebbe avvalersi di importanti contributi di ricerca, che andrebbe confrontato su di una piattaforma internazionale. Per questo, tuttavia, i sinistri potrebbero, forse, trovare qualche ritaglio di tempo nei prossimi mesi — tempo sottratto allo scartabellare ossessivo negli archivi giudiziari o a rintracciare paparazzi con preziose foto compromettenti o pseudo-escort pronte a vendere informazioni scottanti ― ma ora, ora no, lasciamo che godano, che sproloquino davanti al volto insanguinato di Silviotto.
Vorrà dire che questa sera dovrò portare Peter fuori a cena, farlo bere più del solito (ogni popolo ha il suo punto debole) per fargli dimenticare che sta dividendo un appartamento con uno zulu. È bene, tuttavia, che alzi un minimo il gomito anch’io per dimenticare, parafrasando questa volta Alberto Sordi, che quando i miei antenati costruivano acquedotti, gli antenati di Peter si dipingevano il volto di blue ma che la storia ha fatto il suo corso ed, oggi, le parti si sono drammaticamente rovesciate!