TRANSUMANZA

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giovedì 7 gennaio 2010

La mia esperienza dagli elfi, sul finire del Novecento.

Sto verificando che molti visitatori di questo blog-magazine vi arrivano perchè stanno cercando informazioni sul Popolo degli Elfi. Viverealtrimenti ha avuto il piacere di ospitare due post dell'antropologa Cristina Salvatori (Una breve storia del Popolo degli Elfi e Di nuovo su "Il Popolo degli Elfi"). Oggi, ho deciso di postare quanto scrissi, a proposito degli elfi, sul mio libro Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia. Ero reduce da un periodo di quasi venti giorni nei loro villaggi e, senza pretese di aver avuto una comprensione profonda del fenomeno, ho lasciato parlare alcune emozioni. La reazione all'incontro con gli elfi è spesso molto emozionale. Loro, del resto, rappresentano un'anima molto pura, naïf del viverealtrimenti. Personalmente, dopo aver fatto diverse altre esperienze, incontrato altre culture eccetera, non sento più una grande affinità. Questo non significa che non sia sempre un piacere, per me, incontrarli, apprezzandone le notevoli qualità artistiche e le squisite torte rustiche.
La mia esperienza dagli elfi, sul finire del Novecento (era il 1999, per l'esattezza):


Gli elfi tendono oramai a considerarsi un popolo. La loro esperienza dura da quasi venticinque anni.
Il primo villaggio elfico venne chiamato “Gran Burrone”.
È un piccolo borgo, immerso completamente nei boschi dell’Appennino tosco-emiliano. Alcuni sostengono sia stato un covo di briganti.
Venne occupato sul finire degli anni ’70, con l’intento di costruire “in un luogo lontano dai fragori della città, dalla logica repressiva del capitale, […] una contro-società libertaria e conviviale” .
Con l’andare degli anni vennero occupati altri posti: piccoli borghi (Piccolo Burrone, Pastoraio), casali o anche semplicemente case, recuperate da uno stato più o meno avanzato di abbandono.
Oggi gli elfi sono quasi duecento, distribuiti in circa venti villaggi confederati.
Diversi bambini hanno visto la luce sotto i loro tetti rabberciati. Alcuni sono ormai “adulti”.
L’esperienza elfica, sicuramente riuscita data l’innegabile longevità, sta avendo un buon successo.
Aumentano esponenzialmente i curiosi, gli “improvvisati antropologi” e non manca chi decide di sposare, per qualche tempo, il loro stile di vita.
Gli elfi si prestano bene a farsi conoscere. L’ospitalità ha un ruolo centrale nella loro cultura.
Chiunque può raggiungere un loro villaggio e rimanere, in molti casi, tutto il tempo che vuole. È sufficiente che sia disposto a collaborare e a rispettare alcune regole minime (niente droghe pesanti, non fumare in locali dove stazionano bambini, avere pochi accorgimenti ecologici).
Ho notato in molti elfi “di lunga data” -soprattutto se in coppia ed eventualmente con figli- una certa tendenza centrifuga, a cercare cioè qualche rudere di casa da ristrutturare, nelle vicinanze di un villaggio, per avere una maggiore autonomia.
Del resto i ruderi, sull’Appennino tosco-emiliano, non si fanno desiderare.
Intere aree sono state evacuate, all’indomani della seconda guerra mondiale.
Lo spirito elfico era ed è rimasto radicalmente anticonsumista.
Direi di più: animato dal desiderio di disertare la società dei ruoli rigidi e del potere, per vivere in un contesto liberato ed autosufficiente.
Gli elfi, dunque, sin da principio, hanno tentato di far affidamento il più possibile sulle proprie risorse: raccolta di frutti spontanei, agricoltura e allevamento biologici.
Il rifiuto della società capitalista e la ricerca di una maggiore semplicità del vivere quotidiano li ha condotti lontano dalle tecnologie.
Di conseguenza…

...lo stile di vita degli elfi è simile, sotto molti punti di vista, a quello dei contadini del secolo scorso. Gli elfi vivono in case prive di corrente elettrica e dunque di ogni comfort della vita urbana, riscaldate a legna e illuminate dalla luce fioca delle candele. Vicini ai contadini d’un tempo per gli aspetti della cultura materiale, gli elfi si distinguono per l’organizzazione sociale sostituendo “la tribù” alla famiglia estesa, la convivialità alla cultura della rinuncia e del sacrificio, il cosmopolitismo e l’apertura al nuovo, al localismo e al timore per l’innovazione propri della civiltà contadina. Vivono in una condizione di frugalità volontaria, di “povertà ragionata”, esprimendo in questo modo, nei minuti comportamenti quotidiani, un’etica di responsabilità nei confronti della natura.
(Mario Cardano, Lo specchio, la rosa e il loto, ed. Seam, Roma, 1997, pp. 17-18)

Mario Cardano, l’autore del testo citato, ha soggiornato dagli elfi nel 1990.
Oggi, a distanza di diversi anni, non è cambiato molto.
C’è solo qualche concessione in più alla corrente elettrica; generalmente nella falegnameria ed in una o due stanze di ciascun villaggio.
Si sta anche diffondendo l’uso di pannelli fotovoltaici.
Regalati, nella maggior parte dei casi.
Gli elfi, difatti, hanno un’incurabile diffidenza nei confronti del denaro.
L’economia interna alla confederazione dei villaggi si fonda essenzialmente sullo scambio e sul dono.
Allo stesso tempo, esiste una cassa comune di tutto “popolo elfico”. Viene soprattutto alimentata con i soldi che diversi tra di loro guadagnano in estate, partecipando come pizzaioli ad eventi musicali di grande richiamo: Arezzo-wave, Sun-splash e Pistoia-blues.
In quelle occasioni, partono dai villaggi con modalità disparate.
C’è chi si occupa di trasportare, su di un vecchio furgone, due o tre forni semoventi: cupole di terracotta da poggiare su sostegni di ferro.
Per tutta la durata degli eventi sfornano un numero incalcolabile di pizze, utilizzando farina biologica e molti ortaggi autoprodotti.
Ormai sono conosciuti ed attesi con ansia dagli scoppiati abitués.
Buona parte dei soldi della cassa comune vengono utilizzati per comprare prodotti difficili da ottenere autonomamente: the, caffè, pastasciutta, riso, ecc…
Credo che gli elfi non possano essere definiti in alcun modo -neo-hippy, fricchettoni, anarchici, contadini- senza il rischio di essere riduttivi.
Ormai rappresentano un fenomeno peculiare. Originale. Gli elfi possono essere identificati solo con il loro nome.
La loro è una sottocultura “sincretica”, in cui convivono, integrandosi: “hippysmo”, paganesimo, panteismo, ruralismo autogestionario e potremmo continuare ancora.
Hanno una vocazione pagana, ad esempio, le feste della luna piena, dei solstizi e degli equinozi.
Si organizzano di volta in volta in un villaggio diverso.
Momenti gioiosi -si canta e si suona attorno al fuoco- ma anche occasioni di incontro, di scambio, di confronto.
A volte, durante queste feste, diversi elfi vivono l’esperienza purificatoria dei pellerossa: la sweath-lodge, la capanna sudatoria.
Quello elfico è un esperimento di autogestione.
Non esistono dunque capi.
Le decisioni vengono prese in cerchio, tanto nei singoli villaggi, quanto negli incontri della confederazione.
Per consentire a tutti di esprimersi al meglio, si utilizza “il bastone della parola”, un metodo mutuato da alcune tribù di nativi americani.
Il bastone, uno qualunque in realtà, viene investito di un forte significato simbolico.
Chi lo detiene può parlare liberamente e senza limiti di tempo.
Ed ora veniamo alla mia esperienza con loro.
Erano anni che ne sentivo parlare, o favoleggiare.
Conseguita la laurea mi decisi e agevolato da alcune circostanze favorevoli riuscii a raggiungere un loro villaggio, l’unico non “appenninico”, addentrato nelle colline del pistoiese.
Conclusi subito che l’esperienza meritava più dei due giorni che mi ero concesso per visitarli.
Dopo appena due settimane ero di nuovo lì, con l’intento di rimanere più a lungo.
Fu una delle mie esperienze più intense e fascinose.
Quasi ogni mattina, al momento del risveglio, mi sentivo profondamente appagato di trovarmi con loro.
L’idea di andare via mi disturbava.
Mi vestivo e scendevo le scale dell’antico casale.
Avalon era il nome che avevano dato a quel villaggio.
Un nome di tolkieniana memoria come altri, del resto, come lo stesso nome che li contraddistingue.
Nel cuore del casale, su un tavolo ricavato da una sezione di tronco, trovavo il pane fatto nel forno a legna il giorno prima, marmellate e miele autoprodotti.
Se ero fortunato trovavo ancora del caffè, altrimenti dovevo prepararmelo da solo, sul fuoco del camino sempre acceso, estate e inverno.
È difficile rendere la peculiare atmosfera, le parole cordiali con cui ero accolto ancora assonnato, la disponibilità di tutti.
C’era quasi sempre qualcuno che suonava e cantava canzoni insolite, spesso del repertorio popolare dell’Italia del sud.
Mi munivo di macete in falegnameria e uscivo sulle terrazze degli ulivi per collaborare al lavoro di ripulitura dalle canne e da altre piante infestanti.
Spesso lavoravo da solo ma mi sentivo comunque parte di un unico corpo.
Stavo insolitamente bene e ancora mi chiedevo per quale motivo avrei dovuto tornare.
Quando qualcuno suonava una trombetta ritorta era il momento del pranzo.
Si mangiavano spesso minestre di legumi.
Si mangiavano ortiche crude e fiori crudi di sambuco.
Ognuno, poi, lavava il suo piatto o si faceva pari e dispari con qualche compagno e chi perdeva lavava per due.
Si utilizzava la cenere del camino al posto del detersivo.
Dagli elfi è tutto così strano eppure così familiare.
La sera si accendevano le candele ed i colori diventavano più caldi e i volti dei presenti si sfumavano.
Chi parlava, chi cantava. Si suonavano anche i djambé davanti al camino ancora acceso e sentivo come palpitare ricordi ancestrali, antiche memorie.
Era un po’ un ritrovarsi, sentire risvegliare la propria antica umanità.
Mi sentivo permeare da un senso di integrità, di compiutezza così genuinamente umana.
Quello che si ricerca spesso invano nelle nostre metropoli e di cui si sente troppe volte un’indecifrabile mancanza. La stessa che ci fa sentire così irrisolti. Talvolta così soli.
Erano tante le persone che arrivavano.
Di ora in ora la configurazione umana cambiava, nuovi volti prendevano posto sulle panche ai lati della lunga tavola.
I capelli arrivavano spesso sulle spalle, disordinati e a volte impastati, a formare trecce giamaicane o shivaite.
Arrivavano e partivano singles, coppie, coppie con bambini, tutti avvolti in quell’ alone peculiare. Acre, selvatico.
I ritmi del quotidiano erano lenti.
Si aveva tutto il tempo per assaporare ogni momento della giornata.
Si arrivava quasi a ritualizzare ogni gesto.
La mente si sgomberava.
Cadevano schemi prefissati e si scivolava in una quiete dolce, a momenti quasi estatica.
Non ci si sintonizza subito.
La prima volta impiegai circa due giorni prima di “entrare nel flusso”.
Inizialmente ci sono resistenze, giudizi poi, gradualmente, le persone con cui vivi iniziano a disvelarsi, come ad offrirti sprazzi della loro intensa storia.
Si diventa quindi più intimi. Piuttosto in fretta.
Nei villaggi elfici, generalmente, non esiste il bagno.
I bisogni si fanno all’aperto.
C’è sempre un’area ben visibile dove sono disponibili zappe e diverse bottiglie.
Quando insorge l’insopprimibile bisogno escretorio non c’è altro da fare che procurare una zappa, riempire una bottiglia d’acqua e avventurarsi in sentieri scoscesi, trovare uno spazio adatto ed iniziare a scavare una buca.
Anche defecare perde l’automatismo che ha nei nostri comuni appartamenti.
Richiede più tempo, più creatività, più fatica.
Era bello, però, quel contatto delle mani sull’erba e sulla terra, l’aria frizzante e, dopo il sommario bidet, un po’ infreddolito risalire sino all’antico casale.
Riscaldarsi davanti al camino, intessendo nuove discussioni.
Oppure semplicemente sprofondare sui vecchi divani e ascoltare qualcun altro suonare la chitarra e cantare.
Dopo cena, soprattutto, si suonava e si cantava.
Le ragazze, a volte, ballavano.
Non si sentiva la mancanza di una televisione.
Ci si dimenticava che, normalmente, nelle case la sera si guarda la tv.
Tutto era giocato sul fronte dell’umano, del rapporto diretto, faccia a faccia.
Ricordo che la sera, al lume di candela, ovunque girassi lo sguardo ritrovavo frammenti di poesia.
Sembrava proprio non ci fossero maschere e quelle che c’erano erano talmente semplici che non davano quasi fastidio.
Solo dagli elfi sono riuscito a cogliere sprazzi così palpabili di autenticità.
Probabilmente sono i loro modi, accoglienti, tranquillizzanti.
La continua ricerca di mettersi reciprocamente a proprio agio.
In quella situazione, si è incoraggiati ad abbassare le difese per essere, finalmente, se stessi.