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sabato 14 agosto 2010

Pellegrinaggi e luoghi santi in India: l’origine delle tradizioni.

Essendo in corso, su questo blog-magazine, la condivisione di una diario di un'esperienza singolare: la partecipazione ad un workshop con Jasmuheen nel corso del Kumbha Mela di quest'anno, ad Haridwar (in fondo i link ai due posts gia' loadati) ho pensato di condividere una bellissima lezione, tenuta da Giuliano Boccali, docente di Indologia all'Universita' degli studi di Milano, il 28 marzo 2000. Allora era difatti in corso un altro importante Kumbha Mela, ad Allahabad, rappresentato a Roma da una splendida mostra fotografica presso il Museo Nazionale D'arte Orientale, cui faceva da corollario il libro fotografico Kumbha Mela, di Rosa Maria Cimino, pubblicato dall'ISIAO (Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente). Lascio dunque la parola al professore per la lezione in titolo:

Ho scelto il tema: pellegrinaggi e luoghi santi in India nelle origini e nella tradizione anche perché mi sembra, oltre che intonato alla mostra fotografica, anche intonato, comunque lo si valuti, comunque lo si senta, all’anno giubilare in quanto offre la possibilità di una riflessione sui luoghi santi ed è da questa riflessione che vorrei partire nella conversazione di questa sera. Mi sembra, almeno in prima battuta, che tra le città sante dell’Occidente e dell’Oriente esista una differenza profonda. Roma è diventata prima la capitale di un impero, poi la sede del sommo pontefice che è la massima autorità spirituale della cristianità. A loro volta Gerusalemme e La Mecca che assimiliamo qui per molti motivi sui quali non mi soffermo ad una città santa dell’Occidente, sono stati teatro di avvenimenti troppo noti, troppo fondanti per dover essere ricordati per esteso. Ad accomunare quindi le tre città, che possiamo forse considerare come le più sante dell’Occidente, estendendo in questo caso il concetto di Occidente anche all’Islam, è il fatto che in tutte e tre sia avvenuto qualcosa di storico, o almeno che viene considerato storico, così fondamentale per le civiltà e per le religioni implicate da indurre a eleggere queste città a luogo sacro e anche a proiettarne nel futuro l’eternità, per così dire, sono considerate città eterne. A maggior ragione storici e anche storico-religiosi, ovviamente, sono i motivi della “santità” e dell’eternità, per esempio, di Parigi. Nulla di tutto questo implica che le quattro città che costituiscono il circuito, se così lo vogliamo chiamare modernamente, del Kumbha Mela, cioè Haridwar, Ujjain, Nasik e Allahabad ma anche a Benares o a Puri nell’Orissa o a Madurai nel Tamil Nadu, per citare alcune delle città più sante dell’India, nulla di assoluto rilievo storico è accaduto. In nessuna di queste città, che intenzionalmente ho riportato tra le più sante dell’India, è stata mai un centro politico di uno degli stati che hanno fatto la grande storia dell’India, oppure, nei rari casi e momenti in cui lo sono state, la loro santità ed eternità nulla hanno a che vedere con la preminenza politica rivestita dagli stessi centri in periodi determinati. Così, per esempio, Ujjain, che fa parte delle quattro città sante della Kumbha Mela è stata la capitale, nell’epoca classica per antonomasia, quella dell’impero dei Gupta nel quinto-sesto secolo dopo Cristo. La santità, però, la sacralità di questi luoghi nasce da condizioni e requisiti di tutt’altra natura, incommensurabile, potremmo dire, con quella politica, militare o curtense. Cioè il fatto che in rari casi, in periodi delimitati, alcuni di questi centri siano stati anche grandi centri politici, come i grandi centri storici, non hanno niente a che vedere, ad occhi indiani, con la loro sacralità. Da dove nasce? Quali sono le ragioni di questa santità? Almeno a occhi occidentali esse appaiono più in luce e risiedono essenzialmente, come quasi tutto in India…abitano, per così dire, nel mito, nel piano mitico, che decreta la particolare sacralità di questi centri. Dico particolare non a caso, perché ad occhi indiani, tutta l’India è sacra, quindi la sacralità è questione di proporzioni, di intensità, in quanto fondamentalmente l’intero subcontinente, come noi lo chiamiamo, è tutto sacro, ed è la sede, ad occhi indiani, forse non solo indiani, di processi spirituali di straordinaria elevazione, di straordinaria intensità. All’interno però di questa concezione che sacralizza tutta l’India, indubbiamente ci sono dei centri che lo sono più che altri e la sanzione di questo status non è storica, ripeto, ma è mitica. Così per esempio, per riprendere quello che ho appena accennato riguardo, poniamo a Mathura o Ujjain, Mathura è sacra in quanto, nella foresta di Vrindavan, lungo le sponde della Yamuna, il mito dice che Krishna è stato allevato fra i pastori, dai genitori adottivi ed ha conosciuto le prime esperienze sia di lotta con i demoni, in particolare il pro-zio che ne aveva osteggiato la nascita, sia di amore con le famose gopis, le pastorelle. Ujjain a sua volta è sacra per molti motivi, prima di addentrarci in quello che ha a che fare con il Kumbha Mela ne ricordo un altro, un mito di segno diverso, cupo, inquietante, legato a una vicenda divina molto dolorosa, intendo dire il suicidio della prima sposa di Shiva, Sati, la fedele, la quale si arde con un fuoco interiore, da lei stessa emanato, per protesta contro il proprio padre che non ha reso onore al suo sposo Shiva, non l’ha fatto parte di un sacrificio. La figlia, perciò si consuma con questo fuoco interiore, per protesta contro la negligenza, l’insulto paterno verso lo sposo. Shiva è disperato, si carica sulle spalle il corpo morto della sposa divina e vaga come un folle per l’intero universo, finché Vishnu, impietosito e anche per suggerimento delle altre divinità non decide di alleviare questo strazio e con le frecce fa a pezzi, saettando, divide, per così dire, il cadavere di Sati in brani. Dovunque uno dei brani del corpo, del cadavere della dea è caduto, lì Shiva stesso risiederà in una delle sue forme e soprattutto il brandello di questo grande, immenso corpo divino rende sacro il territorio. Per l’esattezza questi luoghi che sono 57, sono detti Shakti-pita, cioè piedistalli, seggi, troni, addirittura della Shakti, vale a dire della potenza ma nel senso della grande dea donna, la grande dea femminile e tra questi si annoverano, per l’appunto, alcuni notissimi, Benares stesso è una Shakti-pita, anche se non è il motivo fondamentale della sua preminenza. Ujjain, oltre a far parte del circuito del Kumbha Mela è uno Shakti-pita. La sanzione della santità di un luogo è, ripeto, non storica - non si suppone che sia successo niente di obiettivo, di fattuale - ma è mitica. E assicura che cosa? La santità del luogo assicura che esso è, sostanzialmente, dispensatore di due cose: la fertilità e su questo ritorneremo perché non è così ovvio… e l’altro è la purezza. Questo requisito della purezza, cioè, meglio della capacità di generare e di purificare, è dovuto spesso ma non sempre alla presenza di corsi d’acqua, di correnti d’acqua, che è considerata lo strumento di purificazione per eccellenza, perciò si chiamano tirtha guado sacro e, infatti, le località così chiamate sono molto spesso lungo i fiumi, Benares per esempio, o addirittura alla loro confluenza, come Allahabad, a ovest di Benares, che è il centro principale del grande rito, della grande cerimonia, pluriennale, del Kumbha Mela. Ad Allahabad sfociano, infatti, nella Ganga, la Yamuna, altra fiumana santissima, come abbiamo visto, sulle cui sponde sorge anche Delhi e, secondo il mito, la Sarasvati di cui si parla fino nei miti vedici, prima fiumana sacra a noi nota della tradizione indiana e anche una delle prime dee che tali restano nella plurimillenaria vicenda dell’India ma fisicamente, geograficamente almeno, sembra essere scomparsa, dice però la tradizione che sotterraneamente ad Allahabad la Sarasvati si congiunge con la Ganga e la Yamuna. Non mancano peraltro i tirtha sulle acque anche dei laghi, come per esempio Pushkar, nel Rajastan, vicino ad Ajmer che è sacra ed è uno dei rarissimi, forse l’unico centro, sacro a Parvati. E anche questo avrebbe una spiegazione mitica ma…
Bene, soffermiamoci allora un attimo sul motivo della santità di questi quattro centri. Li ricordo di nuovo: Haridwar, Ujjain, Nasik e Allahabad che formano questo grande ciclo rituale del Kumbha Mela. L’esordio del mito della Kumbha Mela, come nel caso di tutti i miti indiani, può essere raccontato in molti modi e a seconda dei diversi Purana, cioè dei testi sacri che lo narrano, le narrazioni sono diverse. Ma il nocciolo sta in questo: esiste intorno alla terra nota, la terra che noi abitiamo, un oceano che è di latte nel quale sono immersi alcuni beni molto preziosi. L’oceano è insondabile, l’onnipotenza degli dei indiani è di dubbia, per così dire, natura, come la loro immortalità, anzi, per la verità gli dei indiani non sono immortali e questo è un fatto piuttosto interessante, e perciò per essere immortali hanno bisogno di recuperare ciò che è andato perso nell’oceano di latte, in particolare un’ampolla, un vasetto, Kumbha, che contiene l’ambrosia dell’immortalità. Non si sa bene come fare perché questo oceano di latte è insondabile. A un certo punto qualcuno ha l’idea di localizzare una cosmica zangola, uno strumento con cui tradizionalmente si faceva la panna. È una sorta di botte molto allungata con un coperchio che contiene un bastone che viene fatto rotare con una manovella in maniera che sbattendo la panna, la panna si addensa e dà luogo al burro. Chi frequenta la montagna l’avrà vista. Ed è organizzata una zangola cosmica che è da immaginare capovolta, quindi la base è anche il coperchio, per così dire, è garantito da Vishnu che si manifesta nella tartaruga. Il monte Mandara, monte sacro, funge da bastone nel frullino e intorno a lui, per garantire il movimento rotatorio, si attorciglia il serpente Vasuki, il serpente dell’infinito, che viene tirato da una parte dai deva, dagli dei, e dall’altra parte dagli asura, gli anti-dei, i demoni. Non sono del tutto equiparabili ai demoni occidentali ma comunque l’analogia è abbastanza pertinente, i quali tirano gli uni da una parte, gli altri dall’altra. Gli asura si sono prestati all’iniziativa con loro finalità abbastanza evidenti. L’operazione comincia. Gli dei tirano da una parte, gli asura dall’altra, il povero serpente, secondo alcuni versioni è un po’ strattonato e strangolato dall’operazione, per cui emana un veleno formidabile che brucerebbe l’universo intero se Shiva non intervenisse, come spesso fa, per salvare il mondo, deglutendolo e restando per sempre segnato da una macchia blu al collo. Donde uno degli epiteti più comuni di Shiva: milakanta, il dio, colui che ha il collo blu. Però salvo questo l’operazione riesce e cominciano finalmente a manifestarsi questi preziosi che erano persi negli insondabili abissi dell’oceano. Fra questi la luna, per esempio, Lakshmi, dea stupenda della bellezza e della fertilità, che arriva a bordo di un loto e viene immediatamente innaffiata da due elefanti che la puliscono del latte. Kasturbha, cioè il gioiello di cui Vishnu si fregia, l’albero dei desideri, eccetera eccetera…finché non arriva finalmente questo…secondo alcuni retto dal medico degli dei, secondo altri per proprio conto, questo kumbha, questo vaso contenente l’ambrosia dell’immortalità. Qui naturalmente si rivela come mai gli asura hanno partecipato all’iniziativa: vogliono berne anche loro e si ingaggia una titanica lotta fra gli dei e gli anti-dei per il possesso di questo vaso. Uno, fra l’altro, degli anti-dei riesce a berne un po’, la luna e il sole lo vedono, lo denunciano, Vishnu lo decapita con il proprio disco ma secondo la logica ferrea del mito fino alla gola l’ambrosia è scesa, quindi la testa rimane immortale ed è fissata nella volta celeste da dove si vendica del sole e della luna e li azzanna, quando può, provocandone, temporaneamente, l’eclissi. Salvo questo incidente, alla fine, dopo dodici giorni, il conflitto si chiude con la vittoria dei deva, però quattro gocce del divino liquido sono nel frattempo cadute a terra e nei quattro punti del sacro suolo dell’India, raggiunti dalle gocce, ci sono i quattro luoghi santi, che formano il circuito cerimoniale del Kumbha Mela che dura dodici anni in quanto ogni giorno divino equivale a un anno umano e quindi in ciascuna di queste tre località, a turno ogni tre anni, c’è una cerimonia, un grande raduno festivo, religioso, che culmina ad Allahabad ogni dodici anni. Questa è la ragione, mitica, come, del resto, in altri casi, della santità di queste quattro località e della grande cerimonia del Kumbha Mela. Ma più in generale torniamo a una riflessione sui luoghi sacri dell’India: le acque sante di tutti i guadi sono ritenute capaci di cancellare ogni colpa e in questo modo esse consentono due cose una di migliorare, di vedere esaudite le proprie legittime ispirazioni mondane, e devo dire che questo aspetto rimane di solito in ombra nell’idea occidentale di tirtha e su questo torneremo…e anche consentono di raggiungere, dopo la morte, il paradiso, ovvero di liberarsi definitivamente dal ciclo delle rinascite. Attenzione, i due scopi non sono affatto equivalenti, anzi, per certi versi sono antitetici. Perché? Ad occhi indiani il paradiso, popolato di piaceri del tutto mondani, è una condizione alla quale si accede dopo una vita eticamente, religiosamente, ben vissuta. È una sorta di premio alla propria corretta esistenza mondana e il soggiorno fra una vita e l’altra. Secondo le note concezioni indiane, infatti, gli atti compiuti nell’esistenza attuale hanno non solo le conseguenze pratiche che possono avere adesso ma gettano come un seme etico, un seme buono o cattivo a seconda della valenza etica dell’atto compiuto. Questo richiede un terreno adeguato per svilupparsi e perciò si determina la necessità delle rinascite, in maniera che questi semi, positivi o negativi si possano sviluppare. E’ la cosiddetta legge del karma cioè, come viene tradotto di solito, Karma è un termine che significa “atto”, “azione” ma viene inteso, in questo senso, come “retribuzione causale”. Il paradiso, quindi, è una condizione transitoria nell’intervallo, lungo o breve, a seconda dei meriti accumulati tra una vita e l’altra. Il fine ultimo dell’essere umano, però, non è il paradiso, perché il paradiso comporta comunque di rinascere e rinascere significa incontrare nuovamente il dolore. I più drastici, rispetto a questa considerazione, non sono del resto tanto gli induisti quanto i buddisti, per i quali il paradiso è una tremenda iattura, nel senso che dopo aver goduto di questi celesti, ultraterreni piaceri, la ridiscesa nel dolore mondano è la peggiore delle punizione. Però anche gli hindu sono, con più gradualità, della stessa opinione, talché lo scopo finale del progresso spirituale dell’essere umano è quello, come sapete, di liberarsi da questa condizione di rinascita e rinascita e rinascita, il famoso samsara, il cerchio delle rinascite, per accedere alla liberazione, moksha o mukti, da questi cicli dolorosi e inconcludenti. Perciò, il moksha è per l’Induismo, e anche per il Buddismo ed il Giainismo, il fine più elevato, il fine ultimo che l’essere umano può proporre a se stesso. Nel Mahabaratta, l’epopea nazionale indiana, come pure nei Purana, testi antichi delle tradizioni e’ per ciò detto: spezzatisi i piedi con un sasso l’uomo deve risiedere a Varanasi, a Benares. Poteva dir Benares o poteva citarne un altro. L’espressione piuttosto paradossale allude alla necessità assoluta di intraprendere la via verso la liberazione e all’aiuto insostituibile che un guado come quello di Benares o come molti altri, lo vedremo, può offrire, al punto che conviene autoinvalidarsi pur di essere certi di soggiornare definitivamente, per sempre, a Benares. Il termine tirtha assume in questo quadro un significato esclusivamente spirituale. Sull’acqua o meno il guado sacro è il luogo che aiuta ad attraversare l’esistenza mondana, a raggiungere l’altra sponda, quella appunto dell’adempimento spirituale della liberazione. Ancora più ampiamente e profondamente, guado sacro è il luogo dove dall’effimero e dal transeunte si apre l’atteso varco verso il permanente e l’assoluto. Il termine, vale la pena di sottolineare, perché questo termine, tirtha, sorge e si carica di un proprio significato pregnante, entro la stessa costellazione semantica dove si colloca, in Occidente, il termine Pontifex. Temaponti è un sinonimo perfetto di tirtha, cioè delinea anch’esso, innanzitutto, il guado, il passaggio; la possibilità di accesso al mondo divino, spirituale, trascendente. In questo senso abbiamo già accennato, esistono tra i luoghi più santi, tra i tirtha più santi, anche località che non sono legate ai corsi d’acqua, come Puri per esempio, nell’Orissa, grandissimo centro del culto di Vishnu, o Madurai, in Tamil Nadu. In ogni modo le visite ai guadi sacri, dette tirthayatra, acquistano un rilievo fondamentale e il Mahabaratta ancora ci indica che il loro prototipo assolutamente grandioso è da ravvisare non solo nel circoscritto pellegrinaggio che i fratelli Pandava, cioè un gruppo di protagonisti del Mahabaratta, compiono all’inizio del proprio esilio, che fa parte della grande vicenda drammatica del poema, ma soprattutto nel gigantesco atto di venerazione che i cinque fratelli compiono alla fine della loro esistenza terrena, quando dopo aver consumato tutta la dolorosissima vicenda della loro famiglia, della guerra fratricida, prima di abbandonare l’esistenza fenomenica, compiono un gigantesco pradakshina intorno a tutta l’India. Pradakshina è un antichissimo rito già indoeuropeo o atto, per lo meno, che consiste nel girare intorno alla persona, alla cosa, all’oggetto che si intende venerare, tenendolo alla propria destra e compiendo un giro completo. Tra l’altro è curioso in India, questo è molto radicato. Voi trovate persino nelle guide musulmane, cui non dovrebbe importargliene niente, che guai se vi provate a fare il giro del tempio passando da sinistra. Vi fermano immediatamente, con gesti di scongiuro e vi fanno fare il giro dalla parte destra. Ecco queste processioni nei luoghi sacri trovano il loro modello, mitico sempre, a sua volta fondante, in questo grandioso Pradakshina con cui i cinque panduidi compiono una circumambulazione dell’India intera, riconoscendone quindi, sancendone la sacralità, prima di inoltrarsi verso Nord dove gradualmente prima Draupadi, cioè la loro sposa comune, poi i cinque fratelli, si spengono. L’ultimo che rimane in vita è il fratello maggiore, con il suo cane. Viene incrociato, per così dire, intenzionalmente dal dio Indra che gli propone di salire sul proprio carro per raggiungere il cielo. Si rifiuta se non sarà accolto sul carro anche il cane. Il cane si rivela poi essere il dio Dharma, il dio dell’ordine sociale, religioso. Interrompo la mia esposizione con questi racconti, un po’ perché alleggeriscono l’esposizione stessa, un po’, c’è un intento più sottile: la sostanza della civiltà indiana, della tradizione indiana e della religiosità indiana, sta quasi interamente, non interamente, sta molto in questi miti e i miti, per loro natura, vanno raccontati, come le opere d’arte vanno viste. Non si sottolineerà mai abbastanza, secondo me, il rilievo dei miti nel tessuto culturale, religioso ma in generale culturale, dell’India. Al punto che ci sono fior di storie sui danni gravi che derivano all’umanità e alla società quando il patrimonio mitico si depaupera o viene trattenuto. Dunque, la realtà, dicevo, grandissimo modello del tirthayatra, delle processioni come quelle che formano il… che vengono dedicate, in particolare ad Allahabad ma anche a Nasik, a Haridwar e Ujjain è questa grandiosa circumambulazione dell’intera India, raccontata dal Mahabaratta. Non solo però, a sottolineare che la realtà dei tirtha è un fatto spirituale, più che geografico, bisogna ricordare che i Purana, testi di antichità, identificano tre tipi di tirtha. I tirtha di cui abbiamo parlato finora, cioè le località geografiche concrete, le quali sono definite tirthashwara, cioè “stabili”, perché è ovvio, i luoghi non si possono spostare. Poi esistono, attenzione, secondo me con grande finezza analogica, anche due altri generi di tirtha, quelli mobili, jangama, che sono i maestri spirituali, i guru o i sadhu, i quali essendo esseri umani si possono spostare autonomamente, dai quali pure ci si reca per ricevere un insegnamento religioso e che costituiscono, anche loro, come il pontifex latino, il guado tra il mondo fenomenico e il mondo trascendente e infine, attenzione, i tirtha interiori, manhasa, spirituali, fatti cioè di manhas, che comprendono attitudini come la compassione, la veridicità, la pazienza. Si tratta cioè, in quest’ultimo caso, di luoghi della propria anima, noi diremmo di attitudini, che ciascun essere umano se vuole può visitare come se facesse il pellegrinaggio alla pazienza, alla fiducia, alla veridicità e attraverso questo pellegrinaggio all’interno di se stessi, verso questa zona di se stessi, si fosse, come di fatto si è in realtà, facilitati nell’accedere dal mondo delle apparenze a quello della realtà spirituale. La realtà dei tirtha dunque è prima interiore e obiettiva, la sanzione della loro santità è mitica, anziché storica e in questo sta ma in un certo senso è implicito in tutto quello che ho detto sinora e anche forse nel modo in cui l’ho detto, la differenza effettiva tra l’India e l’Occidente: la santità di un luogo è sancita da un mito, non è sancita dalla storia. Con le parole sintetiche di Diana Eck, che è autrice di una delle migliori opere di riferimento su Benares, che cito però in questo contesto perché può valere per tutte le altre località sante dell’India:

diversamente da queste altre antiche città [ha appena parlato l’autrice di Atene, di Roma e di Gerusalemme] d’altronde, Benares è una città la cui storia politica è poco conosciuta. Di rado è stato un centro politico importante e l’ascesa o la caduta dei sovrani, attraverso la sua lunga storia, non riveste nessun ruolo nel racconto della sua santità, narrato dalla sua stessa popolazione. Varanasi è detta “la città di Shiva” fondata all’alba della creazione. Non sono gli avvenimenti della sua lunga storia a renderla significativa per gli hindu. Piuttosto essa ha una storia così lunga ed è sopravissuta e fiorita attraverso le fortune mutevoli dei secoli poiché è significativa per gli hindu.

È una differenza sostanziale, secondo me riflesso delle differenti e complementari vocazioni di questi due grandi modi di essere dell’essere umano, perdonatemi, che noi adombriamo con queste due grandi metafore di Occidente e Oriente. Se però la differenza in questo senso è evidente, è molto marcata. L’Occidente mira, per così dire privilegia la storicità. L’Oriente privilegia il mito, da questo punto di vista…è certo però che questa distinzione poco incide sulla natura, sullo status in se stesso della città santa. In India come in Occidente la città santa è il luogo, anzi il varco, il passaggio, il guado, appunto, dove l’eternità irrompe nel tempo, il trascendente nel quotidiano. Sia detto per inciso considerare storici i motivi per cui una località esce dalla storia o favorisce l’uscita dalla storia è, in qualche modo, contraddittorio, è una contraddizione in termini. Ad ogni modo io certamente sono occidentale come siamo tutti noi. Sono innamorato dell’India come spero si senta e, come dire, partecipo di un po’ di entrambe le situazioni ma trovo che da questo punto di vista la posizione orientale sia molto più diretta. In ogni modo, ripeto, quale che sia il motivo, la natura della sanzione di questo status eccezionale le città sante, i luoghi santi in Oriente come in Occidente hanno lo stesso requisito: sono luoghi che favoriscono il passaggio da questa spiaggia, per usare una espressione per l’appunto indiana, alla spiaggia lontana della salvezza, della liberazione, i luoghi dove questo passaggio è possibile e forse è più agevole. Sottointeso, rimane ancora nella metafora, che l’oceano tra le due spiagge è profondo ed è molto pericoloso. Secondo i Purana cinque tra i tirtha più potenti, in grado di dispensare la liberazione sono Ayodhya, Mathura, Haridwar, Ujjain e Kashi, la splendente, per l’appunto, Benares. Secondo altri cicli mitologici, come abbiamo visto -in questo sono citate due città del Kumbha Mela, cioè Haridwar e Ujjain- secondo invece la mitologia del Kumbha Mela anche naturalmente Nasik e soprattutto Allahabad sono in grado di assicurare la liberazione. A questo punto io mi vorrei soffermare un pochino su questa concezione che è molto più occidentale che indiana, per cui noi, quasi istintivamente credo, attribuiamo al pellegrinaggio alle città sante, confortati anche dai testi, sovente, quasi esclusivamente, la finalità di favorire la liberazione. Questa è una deformazione, secondo me, che ha radici lontane, non ultime la storia proprio dell’ideologia europea, la quale è nata da antenati illustri, cioè l’interesse per l’India è nato in uomini di cultura: pensatori, filosofi, letterati dello spessore di Cumbort, dei fratelli Schlegel, di Goethe stesso, più tardi, come sapete, di Schopenhauer, i quali hanno a loro volta formato il loro interesse su testi di assoluta statura, soprattutto filosofica e religiosa. Le Upanishad per esempio. Diciamo, un po’ paradossalmente, che la nostra idea dell’India è l’idea che avrebbe un indiano o meglio,una generazione di indiani che si fosse formata alla conoscenza dell’occidente esclusivamente, supponete, sui testi…poniamo sui vangeli, poi sui testi di S. Agostino, di Leibniz e di Kant. Avrebbero un’idea di un Occidente tutto proteso alle dimensioni più elevate, tutto proteso al regno dei cieli o, quanto meno, attraverso Kant, all’imperativo categorico ed eventualmente a quello isterico. Le cose non stanno propriamente così. Non stanno propriamente così neanche in India. In India peso analogo alla ricerca del moksha, della mukti hanno anche le finalità, per usare un termine squisitamente hindu della vita mondana e su questo aspetto, se mi consentite, vorrei soffermarmi qualche momento per chiudere questa riflessione sui luoghi santi, con una piccola digressione che però penso ci consenta di mettere a fuoco alcuni aspetti di grande importanza.
Ora, secondo i testi della grande tradizione indiana, una vita correttamente vissuta deve perseguire in successione di tempo tre finalità. Per vita correttamente vissuta si intende in genere il riferimento al maschio delle tre classi superiori: bramini, guerrieri e produttori di beni. Non ci soffermiamo sulla condizione della donna perché sarebbe troppo complesso ma diciamo, in generale, un hindu deve, nella sua vita, perseguire tre finalità. Finito il periodo dell’apprendistato che dura per tradizione fino a sedici anni, il giovine deve formarsi una famiglia, deve vivere, cioè, la condizione di capo-famiglia e deve in questa fase perseguire, come scopo della sua vita, il kama, cioè il piacere. In questa ricerca, in questa finalità, è inclusa anche la donna, anzi a vero dire, i testi tradizionali indiani sono tra i primi e certamente i più antichi che riconoscono alla donna lo stesso diritto al piacere dell’uomo. Per piacere si intende il piacere sessuale in senso stretto ma anche la ricchezza della vita, delle emozioni e delle sensazioni che non solo il sesso possono offrire al giovane. Questa fase della vita prosegue ma, crescendo l’uomo, crescendo la coppia, in sostanza, la finalità diventa un’altra, la finalità diventa artha, letteralmente “lo scopo”, “il fine”, per antonomasia, cioè quello che oggi noi chiameremmo “la professione”, “la carriera”, cioè dopo il piacere l’uomo è chiamato a realizzare i compiti ed anche i successi inerenti alla sua condizione sociale. Se è bramino dovrà diventare famoso come specialista del sacro, dovrà guadagnare come tale, dovrà, possibilmente, diventare consigliere di sovrani o di potentati. Se è guerriero dovrà combattere, se è un mercante o un produttore, un agricoltore dovrà espandere il più possibile la propria attività. Tutto questo, però, nell’India tradizionale, ha dei confini precisi, cioè, dicono i testi, quando si vede sgambettare in casa il primo nipote, maschio, è il momento di cambiare marcia e di dedicarsi al terzo scopo, chiamato dharma, cioè la legge religiosa, la legge morale; è un termine molto ricco, molto complesso che include proprio questa evidenza che la civiltà indiana ha dalle origini dell’esistenza di un ordine profondo e unitario delle cose che abbraccia il mondo divino, il mondo spirituale, il mondo sociale e anche il mondo individuale. Questo scopo, dharma, si persegue lasciando la residenza abituale e le cure mondane, noi diremmo, ritirandosi - se è d’accordo, sempre con la propria sposa - nella foresta, per dedicarsi a una vita molto semplice, anche sul piano della concretezza: cibi molto semplici, un alloggio, una capanna molto semplice e dedicandosi alla lettura dei testi sacri, anzi di testi sacri appositi, gli Aranyaka, che appunto forniscono spunto a un rientro in se stessi. Interessante notare, questa concezione si chiama trivanga, cioè “i tre obiettivi”. In essa il terzo fine, dharma, giustifica e riassorbe gli altri due. E, infatti, è sempre la legge religiosa, profondamente inerente all’ordine dell’universo, naturale e sociale, a richiedere la realizzazione dei due fini che cronologicamente la precedono. Cioè è sempre il dharma che richiede che prima del dharma stesso l’essere umano si concentri sul kama, sul piacere e sulla vita pratica, sugli ottenimenti della vita pratica. Esiste però, non tassativamente prescritto ma possibile, un quarto fine da raggiungere, com’è ovvio, nelle premesse stesse di quanto siamo venuti supponendo, che è la liberazione, moksha o mukti dal ciclo delle rinascite. Nella successione temporale questo fine segue al dharma, per cui si parla anche di quattro fini, non solo tre, e si persegue abbandonando anche la dimora nella selva, per vivere in rigorosa solitudine, esclusivamente di elemosine, povertà assoluta, svincolati da ogni obbligo, anche religioso formale e privi, altresì, di ogni diritto. È la condizione ascetica del samnyasi, il rinunziante, che si pone deliberatamente al di fuori della società per dedicarsi solo al fine supremo: raggiungere, attraverso l’ascesi, lo stato di unità con l’assoluto. Oltre le antitesi apparenti della vita e della morte. In vista di questo fine ultimo è anche contemplata la possibilità di accelerare il processo, saltando i tre fini mondani e transitando direttamente, d’abitudine dopo l’istruzione tradizionale, conclusa a sedici anni, allo stato della rinuncia. La tradizione impone come iniziatore di questa possibilità, come di molte altre cose, il grande filosofo Shankara, che personalmente avrebbe addirittura, molto precocemente, scelto lo stato del samnyasa a otto anni. In ogni modo, ripeto, nella successione dei quattro fini, la liberazione è l’ultimo, viene anche dopo il dharma e prevede questa condizione ascetica del samnyasa, oppure si può saltare tutti e tre gli stati intermedi e accedere direttamente al samnyasa. Il trivarga prefigura, dunque, e prescrive una realizzazione piena della vita secondo valori umani sanzionati e santificati anche dal punto di vista più elevato e universale dell’ordine socio-cosmico. Il dharma stesso prevede ed armonizza, come si vede, i fini che lo precedono. Il moksha o mukti, invece, prevede un’accelerazione formidabile del progresso spirituale, condizioni intenzionalmente scelte e molto rigorose e l’aspirazione, il tentativo di accedere, direttamente, nella vita di cui attualmente si dispone, alla liberazione. Si può considerare che, tendenzialmente, non tassativamente, dei due grandi dei dell’Induismo, Vishnu è, fondamentalmente, il custode del dharma e quindi di questa vita realizzata in tutta la pienezza e la ricchezza delle sue valenze umane. Shiva è fondamentalmente la divinità degli yogi, dei sadhu, dei rinunzianti. L’uno sovrintende al dharma non tanto nell’episodico, nel singolo evento, quanto a livello di ritmi cosmici, come sapete interviene, attraverso le proprie manifestazioni, per risollevare il dharma quando decade. Shiva, invece, si pone al di fuori, in un certo senso, della società. Ha un comportamento che, a ben riflettere è proprio una manifestazione di quanto di meno hindu esista, in quanto non ha famiglia, non ha discendenza, si sposerà poi, previ notevoli sforzi per persuaderlo ma non ha varna, non ha classe sociale, il che è inconcepibile per un hindu. Medita su una pelle di tigre o di pantera, si veste di una pelle di elefante sanguinante, adopera dei cobra come bracciali, cioè è l’antitesi, pur essendo una delle massime divinità, apparentemente è l’antitesi dell’Induismo. Questo detto molto genericamente in quanto poi anche a Vishnu i seguaci possono chiedere di essere aiutati nel loro accesso alla liberazione. Del resto, per chi ha visto le foto dell’esposizione, tutti i sadhu che vedete con segni verticali sulla fronte sono vishnuiti, per notizia di costume. Tutti invece i segni sulla fronte orizzontali sono shivaiti. Ma volevo adesso stringere le fila e ritornare a un accenno che avevo fatto all’inizio. Il fenomeno pellegrinaggio, il fenomeno yatra quindi in India non include solo il pellegrinaggio dei sadhu o di coloro che per qualche motivo vogliono accedere alla liberazione in questa vita ma include per la maggioranza dei fedeli l’aspirazione ad essere aiutati dal luogo sacro a realizzare pienamente la propria esistenza completa, a realizzarsi cioè nella pienezza e nella ricchezza dei valori umani che l’Induismo addita ai propri fedeli e che vanno, ripeto, dal piacere alla conquista del benessere, delle ricchezze e alla conquista poi del distacco e della maturità spirituale. Le foto fra l’altro rappresentano molto bene questa varietà di situazioni, da quella dei naga, gli asceti nudi, a quelle dei sadhu, cioè i samnyasin, vuoi vishnuiti, vuoi shivaiti a quelle, invece, delle persone come noi, che visitano il luogo sacro per essere
soccorsi e compresi nella loro aspirazione a un’esistenza che assicuri il paradiso e che assicuri una rinascita in condizioni spiritualmente e anche concretamente migliore. Per dirla con una formula indiana: bukti e mukti. La formula è di ascendenza popolare, probabilmente tantrica. Bukti è un sostantivo che significa godimento, piacere e mukti è un sinonimo di moksha, liberazione. È un modo tipicamente sanscrito, per così dire, questo di esprimersi, in quanto cambiando una sola consonante, per di più sono due consonanti che si assomigliano, si enunciano due concetti di significato opposto. Abbiamo parlato di queste festività, di queste processioni, di questi incontri periodici del grande ciclo della Kumbha Mela e delle celebrazioni dei tirtha e rispecchiano, secondo me, la totalità dei valori hindu e la loro profonda e contraddittoria relazione. In questo, a mio modo di vedere, risiede il fascino segreto dell’Induismo. L’Induismo cioè prefigura un itinerario umano e spirituale che prevede la realizzazione di tutte le dimensioni della vita che noi chiamiamo terrena, mondana, fenomenica, come volete e al tempo…e lo prevede non rozzamente, materialisticamente ma lo prevede proprio come adempimento spirituale e al tempo pone come fine ultimo il superamento di tutto questo. La magia, secondo me, dei luoghi sacri e dell’Induismo in generale, è che nessuno di questi due aspetti prevale mai. Cioè non c’è mai, in questa immensa e straordinaria costellazione che è l’Induismo, né un momento in realtà, né una zona in cui i valori della morte, diciamo, cioè della morte in quanto accesso alla liberazione, prevalgono su quelli della vita e non ce ne è mai nemmeno uno nel quale i valori esclusivamente mondani schiaccino quelli spirituali. Ecco, a mio modo di vedere, è in questo equilibrio, magico in un certo senso, sempre pericolante, come è l’itinerario interiore dell’uomo e sempre rinnovato e sempre seguito che sta il fascino irresistibile di queste immagini, in un certo senso che lo rappresentano e, più profondamente dell’Induismo. Vi ringrazio dell’attenzione.

Per il diario della mia esperienza con Jasmuheen al Kumbha Mela clicca qui (prima parte) e qui (seconda parte)