TRANSUMANZA

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venerdì 1 ottobre 2010

Con Jasmuheen al Kumbha Mela, parte terza.

Dopo un periodo relativamente lungo di silenzio, riprende la condivisione del mio diario esperienziale scritto nel corso di un workshop tenuto da Jasmuheen nel corso del Kumbha Mela di Haridwar. Era Marzo 2010.
Il presente diario e' parte integrante del prossimo testo della Viverealtrimenti Editrice:
Con Jasmuheen al Kumbha Mela. In fondo, i link alle due sezioni precedenti (dalle quali conviene, naturalmente, iniziare la lettura).

L’abbraccio di Jasmuheen

Alle 5.30, dopo essere arrivato dalla stazione con Luca, sono in tenda. Anche questa volta il freddo non si lascia davvero desiderare e la dotazione consta sempre di vecchie coperte impolverate, per la gioia degli allergici alla polvere, tra cui il sottoscritto. Nel campo inizia a fervere la vita mentre io mi metto a dormire. Mi sono dovuto svegliare alle 3.00 sul treno, per non mancare la fermata ad Haridwar. Mi sveglio dopo mezzogiorno. Puzzo! Ho la barba orrendamente lunga. È tempo di fare la toeletta! Nel campo sono state approntate cabine di lamiera con diverse turche e qualcuna adibita a doccia. Oddio: un rubinetto basso, un secchio ed un secchiello di plastica ed un buco, in terra, per far rifluire l’acqua. La maggiorparte degli indiani fa ancora la doccia in questa maniera: riempie il secchio di acqua fredda e, con il secchiello, se la versa, ad intervalli, sul corpo.
È senz’altro un modo ecosostenibile di docciarsi ma non è godibilissimo. Dopo un periodo prolungato in India inizio difatti a sognare l’enorme soffione che ho scoperto a casa del mio amico Umberto, nella Bassa Bresciana e che ho riprodotto, pur in versione ridotta, nel mio domicilio italiano.
Come accennato l’acqua, in India, può essere riscaldata con una resistenza metallica ma qui, al Kumbha Mela, non c’è troppo da fare i difficili!
Mi faccio dunque una doccia fredda e poi, senza schiuma, metto mano, un po’ dolorosamente, alla barba indurita. Compenso godendomi quello che considero un autentico piacere: una manata generosa di dopobarba. Soprattutto in India, nella puzzolente India delle piccole cose, è bello muoversi nel proprio alone di dopobarba e di profumo; sembra quasi preservi da ogni “contaminazione esterna”. Può sembrare un discorso da puristi ma come nella canzone di Gaber «qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali ed affini», così qualcuno può farsi prendere, in questa sede, da discutibili isterismi antropologici perché non conosce le putrefazioni, gli odori da scoli fognari a cielo aperto, la merda umana ed animale del paese in questione.
Ci vediamo presto, con Luca, per un discreto pranzo di corollario. Lui ha ancora su la sua barba: scelte soggettive!

Torniamo al mio campo (Luca si è sistemato a Rishikesh, in una guest-house che non ho visto ma che, a sentire la sua descrizione, un po’ gli invidio, con vista immediata sul Gange e silenzio montano).
Il mio campo, invece, è quasi nel centro del Kumbha Mela e mi tocca sorbire i mantra di mezzo evento che sembrano davvero, in certi momenti, i lamenti di qualcuno con le interiora e le viscere a tracolla.
Arrivati nel campo si presenta una donna francese con cui avevo avuto uno scambio di e-mail: A.
Ha i capelli lunghi ed un po’ selvaggi, è vestita con un pajami scolorito. Più avanti avrei iniziato a pensare a lei come alla sorcière, alla strega.
«Volete conoscere Jasmuheen?», ci chiede.
«Certo, why not?!», rispondiamo quasi in coro io e Luca.
Arriva una donna/donnina con i capelli biondo-canarino, i begli occhi celesti, apprezzabili già dalle copertine dei libri o dalle foto che si trovano su internet. È un personaggio di cui è difficile non cogliere l’essere etereo e ci troviamo lì, davanti alla mia tenda un po’ annerita dalla muffa e da macchie indelebili di origine incerta. Mi abbraccia e mi bacia sulla guancia. Il suo viso profuma di crema di donne ed una eco di rossetto. Abbraccia e bacia anche Luca. Ci dice che si sta organizzando un piccolo Kumbha Mela Tour, una visita ad alcuni baba.
«Vi volete aggregare?».
Ci guardiamo io e Luca-che-ha-ancora-su-la-sua-barba e rispondiamo, nuovamente quasi in coro: «of course!» (te li vuoi perdere?!).
Io faccio subito l’italiano; guardo Jasmuheen e le dico: «andiamo fra dieci minuti, no?! così abbiamo il tempo di…». Segue con tempistica da crociera la risposta di Jasmuheen. Secca e stemperata da un dolce sorriso: «now!».
Io guardo Luca: «Now, it is better! Don’t you think so?!».
Partiamo in visita guidata ai baba. Jasmuheen apre il corteo, assieme a Swami-Ji, vestito di fuoco. Jasmuheen, di spalle, sembra una vitalissima studentessa universitaria che scatta foto a ripetizione. È vestita in maniera molto semplice, da turista in India. Haridwar è davvero bella. È una città ariosa, poco addensata, attraversata dallo scorrere veloce, ricco di correnti, del Gange su letto, visibile, di pietre. Attraversiamo precari ponti di legno e siamo, presto, nella tenda di un baba di cui ritroveremo diverse fotografie in giro per l’evento. Questi è, a mio modo di vedere, banalmente improponibile! I capelli lunghi, un po’ schiacciati, gli danno un’aria ambigua ed un po’ pervertita. Ha lo sguardo di chi pretende la sottomissione totale dell’altro, uno sguardo che ho trovato più volte in questo paese, come è noto, spietatamente gerarchico. Siede su un dondolo pacchianamente addobbato, con panneggi e cuscini dai colori rutilanti ma di qualità del tutto dozzinale. Snocciola un rosario ed ogni tanto risponde ad un sofisticato cellulare. In terra: un branco di discepoli indiani in spenta adorazione. Uno gli massaggia i piedi che penzolano inerti. Lui è il padrone del mondo ed ha al collo un collanone con grandi grani di plastica. È uno spettacolo che può sconfinare facilmente nel disgusto. C’è una sorta di cameretta, ricavata con un separé di stoffa dallo spazio dove siede, su tappeti scadentissimi e polverosi, il branco di discepoli. Lui si alza. Si muove un po’ sgraziato verso lo spazio appartato dove lo raggiungeranno Swami-Ji e Jasmuheen. Lui siederà su altri cuscini, probabilmente ugualmente rutilanti e dozzinali, con la schiena ritta e le curve arrotondate dal grasso. I capelli liberi, sulle spalle, di una chiara consistenza grassa. Si intrattengono un quarto d’ora circa, con Jasmuheen e Swami-Ji, poi loro escono e noi li seguiamo docili. Fuori dalla tenda del brutto figuro (non ho davvero il coraggio di chiamarlo ancora baba ma forse ne ho avuto semplicemente un’impressione eccessivamente negativa), Jasmuheen è in vena di rivelazioni.
Ci riunisce attorno a sé e ci dice: «ho chiesto a questo baba quale è il segreto della sua pace interiore. Lui mi ha risposto: guardare nella propria anima! Ricordate: guardate nella vostra anima! È un buon suggerimento, non vi pare?!».
Credo sia superfluo, soprattutto per chi ha fatto anche solo un minimo di catechismo alle elementari o si è letto un libro di Coelho o di Osho (non è davvero necessario aver intrapreso la lettura delle Upanishad in sanscrito), qualunque commento. Di lì ci spostiamo in un villaggio mesolitico di baba. Hanno capannette di paglia identiche a quelle che si trovano, ricostruite, nei musei a rappresentare l’infanzia dell’umanità. Tante capannette ad altezza d’uomo. All’interno c’è lo spazio appena per un materasso e qualche coperta e, di fianco, per una ciotola, una statuina di Shiva o di altre divinità del pantheon induista.
Dalle prime capannette escono due o tre swami vestiti di fuoco. Altri transitano per il pittoresco accampamento. I volti illuminati, in diversi casi innocenti. Jasmuheen non si trattiene dall’entrare in una di queste capannette, facendosi fotografare nel momento in cui ne fa capolino. Credo che una dimensione del genere, in questo caso di “un cuore ed una capanna”, risvegli in noi risonanze profonde, memorie ancestrali. Abbiamo vissuto millenni in questo modo ed il nostro essere questo lo sa, lo sa molto bene, ne riporta una chiara eco nostalgica, la stessa che ci fa odiare i condomini e vibrare di emozione imperscrutabile innanzi ad un fuoco. Comprendo dunque che una “esperienza regressiva” di questo tipo, per i baba che la stiano vivendo, rappresenti un tassello importante della loro sadhana (pratica spirituale), del loro rivolgersi indietro alla scaturigine dell’unità della coscienza.
Lasciamo i baba alle loro capanne ed alla scoperta, rinnovata ogni giorno, del fuoco e finiamo in un tendone dove tanti baba siedono in file che si fronteggiano, nelle loro spesso logore vesti di fuoco. È l’ora della cena per la quale, tuttavia, bisogna avere molta pazienza in contesti come questo. Prima è il momento di lunghe giaculatorie e noi abbiamo tutto il tempo di studiare i visi dei commensali seduti, rigorosamente in terra, su lunghe strisce di tela iuta. Qualcuno sembra davvero l’archetipo del saggio. Un saggio trasversale che possa incarnare le tradizioni indiana, greca e persiana. Potrebbe esserci qualche orfico sopravvissuto, tra costoro, qualche zoroastriano pentito. Altri sembrano quasi dei subnormali, con fazzoletti arancioni sulla testa, che scendono a coprire le orecchie e si annodano sotto il mento.
Hanno talora nasi grossi, un po’ bitorzoluti, occhiali con montature senza tempo. L’India, del resto, come sosteneva l’indologa francese Madeleine Biardeau, è la patria dell’abolizione del tempo. Non vedo perché ne dovrebbero essere escluse le montature degli occhiali...
I baba, variegati come si è avuto modo di considerare, mangeranno su piatti di foglie intrecciate che finiranno, poi, in pasto alle scimmie o alle mucche. Mangeranno, con le mani, un pasto frugalissimo: un po’ di riso, lenticchie annacquate in cui trapelano goccioline rosse di grasso di olio di semi o di mostarda e l’immancabile chapati: il pane non lievitato.
Luca-che-ha-ancora-su-la-sua-barba impazzisce con la sua bella Reflex ad immortalare ritratti. Ha un bel lavoro da fare!

Lasciamo il tendone ed i ritratti di Luca intenti a smaneggiare nei piatti di foglie solo per finire in un altro tendone. Ci troviamo di fronte ad una scena molto simile, con la sola differenza che vogliono cooptarci nelle libagioni. Hanno trovato il gruppo giusto: capeggiato da Jasmuheen, che non mangia da circa 16 anni.
Accetteremo, tuttavia, un masala chai, buonissimo tra l’altro, fatto con ottimo latte. Un’ala del tendone è riservata alle donne. Tante donne, spesso consumate, nei loro sari. Le mani ed i piedi induriti, tagliuzzati, nello strato coriaceo, da anni ed anni di acqua fredda e di camminate scalze. Qualcuna di loro è più giovane. Una avrà meno di 18 anni ed è deliziosa nel suo pajami blu-tuareg. Uno scialle dello stesso colore ne copre i capelli incorniciandone il viso di mogano e gli occhi neri.
Luca, naturalmente, non dimentica il suo duty dei ritratti. Scatta e riscatta con la sua Reflex, si accuccia, si protende, si sdraia, si mette su di una gamba sola per cogliere tutte le angolazioni, i giochi di luce ed i riverberi sul viso. Bravo Luca!

Bevendo il chai scambio due chiacchiere con S., russo. Finito il comunismo, l’India si è riempita di russi con una bruciante sete spirituale (complimenti all’efficacia dell’ateismo di stato!). I russi che ho conosciuto in India hanno tutti la stessa caratteristica: se si accenna al comunismo e si vuole avere qualche informazione al riguardo si adombrano, non rispondono, cambiano subito argomento. È chiaro in maniera cristallina che si debba arginare la propria curiosità, se non si vuole fare loro violenza.
S. ha occhi celesti che ogni tanto si dilatano enfatici. È un ingegnere petrolchimico, seguace di Jasmuheen da anni. Lei ha avuto un buon successo a Mosca. All’ultimo incontro, qualche mese or sono, mi dice S., erano presenti più di 500 persone. E bravi i marxisti-leninisti; hanno avuto un successone ad imporre la loro stupida cecità!
S. non mangerà mai durante la settimana al Kumbha Mela con Jasmuheen. Il prana è servito! Nel corso della nostra prima chiacchierata, sotto al tendone dei baba e davanti ad una tazza di chai, mi dice che cerca di non mangiare anche in ufficio ma che non riesce a resistere a lungo alle conseguenze che questo ha a livello sociale, di cui è consapevole la stessa Jasmuheen. Qui non deve dare spiegazioni a colleghi scettici e beffardi e, dunque, non si tira indietro.

Di gran lunga meno eterici, io e Luca finiremo nel migliore ristorante di Haridwar, quella sera. Nostra intenzione sarebbe concederci un piatto di carne ma ad Haridwar ed a Rishikesh è un lusso impossibile da poter soddisfare. Sono città sante: alcool e carne ne sono severamente banditi.
Il Big Ben di Haridwar, poco distante dalla stazione, si rivelerà anche un po’ deludente. Del resto, non si può proprio dire che si sia venuti qui per mangiare!

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